Fernando, il cinghiale di Montenero

cinghialeA Montenero lo conoscevano tutti. Per sentito dire, benché in realtà nessuno lo avesse mai incontrato. Parecchie squadre di cacciatori gli erano corsi dietro su e giù per i sentieri che abitualmente percorreva, o tra le piante di corbezzolo mentre grufava e come un aratro lasciava tracce inequivocabili sul percorso che aveva intrapreso. Cercava i funghi e certe radici di cui andava matto e così facendo seguiva percorsi verticali sulle coste della montagna. Spesso avevano sentito i rumori degli zoccoli anche vicino al paese e poi la mattina, disperati, alcuni contadini guardavano, con le mani nei capelli,  l’orto completamente distrutto. Era enorme, due zanne simili a lame spuntavano dal suo muso irsuto e le possenti zampe lo spingevano in lungo e in largo alla ricerca di cibo. Aveva due femmine per sé, una spesso lo seguiva nelle scorribande mentre l’altra restava nascosta in un rifugio, una grotta riparata dalle fronde di un leccio, con i piccoli di entrambe. La prima era coraggiosa, aveva già sentito il fischio dei pallettoni sfiorarle la cotenna in due occasioni, ma il suo cambiare spesso traiettoria l’aveva salvata in entrambi i casi. Era della stessa pasta di Fernando; poco meno di cento chili per un metro e sessanta di lunghezza! Una femmina di cinghiale che ogni cacciatore aveva nei sogni più ambiti e Fernando, che pesava oltre centodieci chili, era un maschio di tale bellezza che forse nessuno nella zona aveva mai visto né cacciato. Le femmine del Montenero si sarebbero accoppiate con lui volentieri ma le sue preferite, Monia e Lenia, le tenevano distanti quando iniziava la stagione degli amori. Tra loro era nato un patto di solidarietà, ben sapendo che da un genitore come quello sarebbero nati cuccioli forti e potenti. Era vita dura per i cinghiali, su quelle colline. I cacciatori, non appena si apriva la stagione, si organizzavano in battute che spesso sembravano seguire un piano di guerra e per loro, Sus scrofa Linnaeus, lontani parenti dei maiali comuni, il destino era segnato. In una stagione o nell’altra. Avevano un bel da fare a istruire i piccoli, ma prima o poi il destino faceva il suo corso. Certo, avrebbero potuto trasferirsi in altura, seguire la dorsale del monte e magari spostarsi a ovest, sconfinando nei territori francesi. Ma qui, sul Montenero, il cibo era abbondante e gli orti, spesso coltivati a patate, erano un richiamo irresistibile. Quante volte, nascosti sulle alture, erano rimasti attoniti a guardar caricare sul bagagliaio del fuoristrada uno dei loro fratelli ucciso, raggiunto dai cani e braccato sin quando il fiato non lo aveva tradito e quella stella cadente di piombo non era penetrata nella spalla, per poi dilaniare il cuore, irrimediabilmente. Qualcuno riusciva a sfuggire ai segugi, altri li avevano affrontati, sventrandone più di uno. Ma contro quelle frecce fumanti di vile metallo non potevano fare nulla, erano veloci, precise e implacabili. La leggenda di Fernando si era ormai diffusa in tutto il territorio, raggiungendo Seborga e oltre Coldirodi. Nessuno lo aveva mai visto ma tutti raccontavano quanto fosse grande. Lo deducevano dalle impronte, dai solchi che lasciava nel terreno arandolo profondamente. Al contrario dei suoi simili non viveva in gruppo. I suoi fratelli costituivano gruppi che potevano contare 20/30 femmine e cuccioli. Molto più vulnerabili, pensava! Aveva trovato un rifugio simile a una grotta e lì avevano messo erba e rami per rendere confortevole il soggiorno. Non solo, con cura aveva spostato alcuni sassi in modo che per accedere alla tana, si dovesse percorrere un piccolo sentiero. Questo non aveva nessuna ragione strategica o di difesa, era un semplice decoro che aveva voluto per rendere più gradevole il loro rifugio. Già, Ferdinando non aveva solo una mole straordinaria, aveva un cuore. Adorava le forme aggraziate della vegetazione mediterranea, spesso si fermava ad annusare il rosmarino selvatico, adorava, quando riusciva, raggiungere i rami di corbezzolo e gustarne i frutti prelibati. Poi, quando la pioggia leggera rendeva il terreno umido, si alzava di buon ora e cercava i funghi più prelibati, portando con sé ora Monia oppure Laria, per dividere con loro quel romantico banchetto. Chi lo avrebbe mai detto; parente stretto dei maiali, figlio di una scrofa dal burbero carattere e un padre mai conosciuto perché prematuramente ucciso in una battuta, era diventato il più grosso cinghiale che mai si fosse visto sui monti liguri. Eppure, incredibile ma vero, era un poeta. Si, un poeta, capace di incantarsi innanzi a un’orchidea selvatica dal doppio fiore o un arcobaleno che congiungeva in un abbraccio la cima del monte con il mare rabbioso. Le due femmine non condividevano molto le sue emozioni, ma ne erano affascinate. I piccoli occhi gli brillavano la sera, quando il sole tramontava e sembrava incendiare i monti francesi, laggiù lontano. Specialmente a fine estate e la stagione fredda portava aria fresca,  iniziava a calare; ogni sera si avvicinava sempre più al mare. Nei suoi pensieri quel disco infuocato era un dio, che dava la vita a tutto ciò che lo circondava. Vederlo scendere gli dava un senso di solitudine, una strana malinconia. Gli tornavano alla mente i ricordi dell’infanzia, quando dopo un lungo cammino durato mesi, sua madre lo aveva portato in quel paradiso attraverso montagne, dirupi e boschi immensi. Non avevano nemici naturali di rilievo, tolti i lupi che erano ghiotti dei cuccioli. Ma le madri attente, difficilmente li lasciavano incustoditi. Mentre i maschi, grandi combattenti, usavano le zanne come sciabole, le femmine, sfornite di quella terribile arma da madre natura, mordevano, attaccando a bocca aperta. Fernando, le poche volte che si era trovato attaccato, aveva rifilato dei colpi tremendi, lacerando la pelle al predatore in ogni occasione. Eppure lui detestava i combattimenti, non erano nella sua indole. Avrebbe preferito poter pascolare tranquillamente in quei verdi prati d’altura, dedicando il suo tempo a rimirare il mondo e le sue meraviglie. Sul Montenero aveva trovato un piccolo spiazzo da cui si vedeva il mare sottostante. Quando raggiungeva quel suo segreto eremo, camminava lento, attento a non lasciar tracce. Non mangiava nulla, non sporcava. Doveva restare il rifugio dell’anima. Lì crescevano i garofani selvatici e una pianta di lavanda, forse piantata tempo addietro da un pastore, fioriva profumando l’aria. Spesso si attardava a seguire il corso del sole verso il sonno, muovendosi qua e la affinché gli steli azzurri della lavanda disegnassero i contorni di Mont Agel, sopra Montecarlo. Giocava con le prospettive, non poteva dipingere e allora faceva sì che gli allineamenti tra cose vicine e lontane diventassero il suo quadro. Quella sera era felice, salendo al trotto si era concesso un porcino troppo invitante e qualche ramo di corbezzolo, piegato dal vento nei giorni passati, si era reso irresistibile. Era felice, il gusto soddisfatto e un tramonto come non si vedeva da tempo. Spostò il capo a destra, i fiori profumati coprivano le isole Lerin. Si mise più a sinistra e il castello del Principe aveva dei rami colorati sulla torre più alta. Poi il sole, calando sul mare, tinse di rosso fuoco le nuvole in cielo, che come fiamme roventi avvolgevano il monte. Le tonalità di rosso, prima chiaro e tenue divennero via via più scure mentre i raggi infuocati creavano riflessi sul mare. Era il più bel tramonto che avesse mai visto. Gli occhi si inumidirono, era commosso da tanta bellezza. Era così assorto che non sentì il rumore di quel ramo spezzato, poco dietro di lui. Non si accorse neanche del rumore metallico del cane che si armava, portando il martelletto in posizione di sparo. Girò il capo e vide la canna del fucile, simile ad un cannone, che lo guardava implacabile. Dietro a lei un uomo, un piccolo e misero uomo eccitato dalla caccia, immobile, pronto a sparare. Voltò il capo verso il sole. Era il tramonto più bello che avesse mai visto, non c’era tempo per scappare, era troppo tardi. Guardò il sole scendere definitivamente dietro il capo Ferrat, lanciando l’ultimo lampo nel cielo, quasi a voler nascondere quello del fucile, che gettava la sua massiccia pillola di morte veloce e potente contro la sua spalla, aprendola senza rispetto, affamata del suo cuore innamorato. Sentì un dolore lancinante, inimmaginabile e una spinta in avanti che non riusciva a contrastare. Cadde a terra senza un lamento, ruotando il capo con l’ultimo sforzo che gli era possibile. Guardando il cielo che lentamente diventava nero e scuro dedicò l’ultimo pensiero a quel sole che non avrebbe mai più visto. . “Non ci sarà mai più un tramonto così”.

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