Enrico Vanzini: il racconto di un deportato

3Articolo di Marina Tezzat Redolfi:

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Ieri, 25 gennaio, alle ore 17,00, al Cafè Monet di Piazza della Stazione, a Bordighera, si è vissuta la storia e lo si è fatto in silenzio, con gli occhi lucidi e il fiato sospeso perché a raccontarcela, la storia, la sua storia è stato Enrico Vanzini, l’ultimo sonderkommando italiano.
A presentare l’intervento dell’emozionato signot Enrico Vanzini, Diego Marangon, dell’Associazione Liber Thetrum, che, insieme a Silvia Alborno, dell’associazione ‘Qui presenti’,  ha organizzato in brevissimo tempo l’incontro.
Dinnanzi ad un pubblico attento che ha riempito il locale all’inverosimile è iniziato questo percorso nel tempo che ha trasportato il pubblico presente in un passato dai contenuti emotivi irripetibili.
E’ la musica struggente del documentario-film del 2012 “Dachau baracca 8” di Roberto Brumat, accompagnatore di Vanzini, giornalista e autore  del libro” L’ultimo sonderkommando Italiano – a Dachau ero il numero 123343”, ad attirare l’attenzione dei numerosi presenti e ad anticipare il racconto lucido, pacato, mai astioso di chi a soli 21 anni fu fatto prigioniero.
“Il nostro racconto ci porta in uno dei campi di concentramento più tristemente conosciuti, quello di Dachau, vicino a  Monaco di Baviera. Il campo di Dachau è stato il primo costruito dai nazisti nel 1933 ed è proprio qui che gli architetti del terzo reich, si sono ispirati per tutti gli altri”.
Sono le parole di Brumat nel film documentario che introduce all’intervento di Enrico Vanzini che tra gli applausi degli intervenuti e l’invito a sedersi per stare più comodo, decide invece di stare in piedi “perché vi posso vedere bene tutti.” e prosegue “Io adesso vi racconto un po’ della mia storia, quello che vi daràpiù di una certa commozione. Io dico la verità, a diciotto anni mi hanno chiamato alle armi, ero molto appassionato al calcio, a tante belle cose, avevo la gioventù che è quella cosa che ti porta a tanti pensieri, pensavo a tante cose che potevo un giorno realizzare, ho dovuto perdere tutto, perché sono stato chiamato alle armi alla fine del ’39…” il suo racconto prosegue con il ricovero nell’ospedale di Alessandria che gli aveva risparmiato la campagna di Russia e il suo arrivo in Grecia a rinforzare le fila dell’artiglieria motorizzata.
Qui ci rimase per un anno, e “si stava anche bene”, dice.  Quando poi l’8 settembre Mussolini andò al potere i tedeschi da amici sono diventati nemici, gli italiani furono presi e sequestrati. Un viaggio estenuante sui carri bestiame e lungo 20 giorni li condusse a Monaco.
“Qui per un anno lavorai per i tedeschi in una fabbrica metalmeccanica sino a quando una cannonata centrò la fabbrica, scatenò il panico così io e altri due italiani che non erano solo amici, erano come fratelli, tentammo la fuga. Camminammo per 15 giorni, sempre di notte, nutrendoci  di bacche, radici, patate e carote, se si trovavano; la fame era tanta, ma il corpo arrivava a rifiutare quel cibo, si cominciava a sentire il declino della vita. Una sera vedemmo una luce filtrare da una capanna. Esausti e affamati ci avvicinammo, ad un tratto vidi una ragazza, mi dissi, io la chiamo, prima in tedesco e poi in italiano, era italiana anche lei, si offrì di prepararci qualche cosa di caldo. Pensammo di aver trovato il posto giusto, invece quando la raggiungemmo nella capanna, una volta entrati, fummo colpiti alla schiena con il calcio di due mitra. Era una spia italiana dei tedeschi ed era pagata, aveva si e no 23/24 anni. “Hai avuto un bel coraggio” – le dissi – “ma ricordati che arriverà anche il tuo momento”.  Lei mi rispose che non le interessava a lei interessavano solo i soldi. E così finimmo in mano alle SS e portati a Buchenwald dove fummo accusati di sabotaggio e condannati a morte. Un tenente che ci fece da interprete ci salvò dalla morte e la pena ci venne commutata in quella ai lavori forzati nei campi di sterminio. Ci separarono. Uno di loro rimase a Buchenwald, l’andrò venne spedito a Lienz, io a Dachau.
“Fu l’ultima volta che li vidi”. Era la fine di luglio del ’44. Ci resterà per 9 mesi, fino al 29 aprile del ’45, quando il campo venne liberato dagli americani.
E’ qui che il racconto si fa più crudo. Racconta di esser stato denudato: “Ci tosarono una striscia di capelli al centro della testa, ci strapparono i peli del corpo con un rasoio che veniva usato per tutti, poi sulla pelle abrasa ci spalmarono un disinfettante puzzolente, che bruciava da impazzire. Ci fecero la doccia con getti d’acqua violenti ed improvvisi alla fine ci fecero indossare una divisa a righe leggerissima, con un triangolo per capire di che nazionalità eri, un paio di zoccoli di legno e un berretto consunto. Ci fecero il timbro, come ad essere all’ufficio postale, mica ti tatuavano, ci voleva troppo tempo, un timbro: chi sul braccio chi sul polso sinistro. Da quel momento il mio nome venne cancellato, cessai di essere una persona e diventai un numero: 123343. Mi assegnarono alla baracca numero 8. Ogni baracca era sporca e ospitava ammassati 8 o 10 persone, qui ci stavi dalle 7 di sera sino alle 4 del mattino, quando c’era la sveglia.
Come si poteva dormire, che non c’erano né coperte, ne pagliericci, cominciava il freddo, e con quel misero pigiametto che ci avevano dato. E il letto non era mica piano, era tutto a doghe, e al mattino dovevi andare a lavorare, non ti lasciavano mica in branda. Si dormiva tutti abbracciati per stare al caldo, e al mattina quando ti venivano a gridare “sveglia” mi capitava di svegliare quello vicino a me col quale si era dormito abbracciati insieme, e quello la non rispondeva più: era morto, poveretto. Ogni cosa veniva studiata per farti ammalare, prima ti ammalavi, prima morivi. Loro non aspettavano altro”.
Questa era la vita nel campo di sterminio.
Ne ha viste e vissute tante Vanzini, ma il ricordo più doloroso resta legato ai 15 giorni che fu costretto a passare ai forni crematori. “Il mio compito consisteva nel sollevare i cadaveri da uno dei carretti che arrivavano stracolmi e farli scivolare nel fuoco. Un giorno mi accorsi che tra quei corpi ammucchiati ce n’era uno che non sembrava morto. Scivolai su di lui e sentii gli ultimi battiti del suo cuore, respirava appena, ma respirava. Non sapevo cosa fare, poi decisi di farlo presente ma mi minacciarono di farmi fare la sua stessa fine. Fui costretto”.
Il tempo si è fermato al cafè Monet, Vanzini ha emozionato e si è emozionato, e la sua voce si è rotta per ben due volte e nel ricordare lo stesso episodio “Un giorno mi fecero andare a lavorare in una fattoria, passammo attraverso un cancello e dopo venti metri vidi una donna, avrà avuto 80 anni, poveretta, camminava a stento, ogni tanto mi guardava e mi sorrideva. Mi chiese se ero francese: dissi no, allora mi chiese se ero italiano, le dissi si. Allora dalla gonna tirò fuori un pezzo di pane nero. Io non lo volevo, c’era la guardia dietro di me, lei insisteva, mi diceva che ero magro, io lo presi e lo misi sotto la bustina sulla testa, la guardia la vide e sparò. Sentii i proiettili passarmi vicino ai piedi. La uccise, la uccise, una sua connazionale, per un pezzetto di pane. Quando la vidi mi venne il batticuore. Mi era parso di vedere mia mamma, poveretta, glielo avevo detto che non volevo, e a lei invece sembrava che darmi quel pezzetto di pane era come aiutare la vita, e ci ha lasciato la vita, poveretta.
Quando sono tornato alla fattoria ho pianto tutti i giorni, non ho più mangiato niente e ogni tanto avevo questa visione. Queste cose rimangono dentro, non si possono dimenticare, queste cose. Di li a pochi giorni arrivarono gli americani. Uno di loro venne vicino a me con uno zainetto a tracolla, mi si avvicinò e mi chiese se ero italiano. Poi mi disse che era tutto finito, di avere pazienza che avri potuto tornare da mamma e papà. ‘Su col morale che è tutto finito’, in quello zainetto c’era di tutto, marmellata, cioccolato. Ma io ne ho mangiato poco, si poteva morire a mangiare troppo”.
E dopo 40 giorni Enrico Vanzini tornò a casa, era la fine di maggio. “Vidi  mia mamma che era sulla porta di casa, io la guardavo, lei mi guardava, mio papà le disse di andare ad abbracciare suo figlio, lei poverina venne avanti: “Tu sei veramente mio figlio? Mi chiese. Pensate una mamma non riconosce un figlio e quella poveretta piangeva e mi disse:”sei pelle e ossa!”.
La presi e l’abbracciai, dicendole: “Mamma vedi questo pezzo di pane? Per questo una donna come te è morta. Io quel pezzetto di pane l’ho portato a casa, e lei lo prese. Ci abbracciammo e mi disse: ‘Lo porto alla Madonna. Quelle sono cose che non si dimenticano”.
E qui la voce si è rotta dalla commozione per la seconda volta.
Enrico Vanzini per 60 anni non ha mai parlato con nessuno di quello che ha vissuto e sofferto, nemmeno con sua moglie, nemmeno con i suoi genitori e nemmeno con i suoi figli. Lo hanno saputo dopo, e con la moglie e i figli si è recato a Dachau. Da quattro anni Enrico Vanzini accompagnato da Roberto Brumat racconta la sua esperienza e lo fa soprattutto nelle scuole, tra i ragazzi, e ai ragazzi dice “Cercate di volervi bene, perché l’amicizia è un dono, state tutti uniti perché la vita è un dono ed è preziosa, state attenti ragazzi, non permettete mai che succeda quello che è successo a me. Io li adoro questi ragazzi, la mia vita ridiventa giovane a stare in mezzo a loro”.

Marina Redolfi Tezzat
26 gennaio 2014

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