Il Palombaro

Palombar Questa storia di cui vado a narrare i fatti è assolutamente vera, nulla è stato affidato alla fantasia, se non qualche particolare sfuggito e recuperato approssimativo per il tanto tempo trascorso.
E’ per questo che i nomi dei personaggi dell’avventura sono di pura fantasia, proprio perché nessuno li possa identificare.
Quella mattina in Accademia la sveglia suonò come tutte le volte ma per noi del Corso Auc, sezione Sios, non ci aspettava una giornata come le altre.
Il giorno prima il comandante ci aveva avvisato che era giunto il momento di provare l’esercitazione del palombaro.
Si perché i futuri ufficiali dovevano, nel periodo di addestramento, provare ogni esperienza che in seguito, raggiunto un posto di comando, avrebbero potuto e dovuto ordinare ai loro subalterni.
Come sempre accade, dietro ad ogni novità veniva costruita una leggenda, con lo scopo di intimorire i più paurosi. Non erano certo i superiori a diffonderle, ma gli anziani, quelli prossimi ad andare in congedo o a destinazione.
Ed attorno all’immersione del palombaro le fantasie non mancavano. Bisogna dire, a chi non conosce di cosa si parli, che il palombaro non è un subacqueo con una tuta di neoprene aderente, leggera e comoda.
Il palombaro è quell’uomo con un casco enorme simile ad un’astronauta, una tuta pesante ed ingombrante e dei calzari di oltre 5 kilogrammi ognuno.
Non ha bombole autonome d’aria sulle spalle ma per respirare è collegato alla superficie attraverso un lunghissimo tubo di gomma, tramite il quale l’aria viene spinta da un compressore. Questo nell’industria, nelle applicazioni civili.
Per noi la pompa che mandava giù l’aria era azionata a mano, con uno sforzo non indifferente da parte di due volontari.
Ci sono già gli elementi per mille fantasie! Qualcuno, fingendo uno sguardo convincente, raccontava di alcuni marinai sprofondati nel fango per il troppo peso dei calzari e ritrovati dopo giorni.
Un altro racconto descriveva l’elica del gommone che tranciò di netto il tubo dell’aria lasciando il povero malcapitato soffocato sul fondo.
Ferdinando, con un cinismo che incuteva timore, disse che al suo turno alla pompa avrebbe sicuramente interrotto il lavoro per fumarsi una sigaretta e che il malcapitato di turno si sarebbe dovuto organizzare per trattenere il respiro.
Ripeteva questo guardando negli occhi il povero Audello Giobatta, genovese doc, timido ed impacciato, dalla vaga somiglianza con Paolo Villaggio da giovane.
Il povero Giobatta si guardò in giro, quasi sperando che quegli occhi non fissassero proprio lui. Ma era solo ed il fetente Ferdinando rimarcò la dose, buttando verso di lui uno sbuffo di fumo puzzolente.
“Belandi non facciamo cazzate…” fu il suo commento, mentre la paura cominciava ad impossessarsi totalmente della sua ragione.
Andammo a letto e son convinto che il novello Fracchia non chiuse occhio quella notte.
La mattina quindi, dopo esercitazioni nel piazzale, colazione e corsa, salimmo sul grande gommone al cui centro troneggiava la pompa dell’aria, simile a quelle che usavano per tirar su l’acqua dai pozzi nel Far West.
Per non parlare della tuta da palombaro, che afflosciata sul paiolo dell’imbarcazione sembrava la pelle rinsecchita di un sauro rubato al museo naturale.
Cosa dire del casco, arrugginito nelle parti metalliche e con il vetro frontale semitrasparente a causa del calcare, della salsedine o cos’altro.
“Ma belin, è una misura unica?” chiese con voce tremolante il Giobatta mentre alcune gocce di sudore gli colavano dalla fronte.
Prese la parola l’istruttore, in modo preciso, deciso e conciso: “All’interno del casco, sulla sinistra, trovate una valvola che con la testa dovete spingere per scaricare l’aria. Se la tuta si gonfia troppo, scaricate. Se si affloscia lasciate arrivare l’aria. Trovate voi l’equilibrio per riuscire a lavorare sul fondo. Il compito è fissare una galloccia ad un ancora…”.
Ferdinando sghignazzava, lui aveva fatto la discesa del Nilo Bianco in gommone. Nelle guardie notturne sparava ai coccodrilli un attimo prima che addentassero il gommone. Qualche migliaio di chilometri rischiando la vita, mangiando spesso insetti e serpenti.
Non toglieva gli occhi dal povero Audello che, neanche a dirlo, essendo in testa nell’elenco alfabetico, fu quello destinato alla prima immersione.
Con gli occhi supplichevoli ci fissò uno ad uno, quasi in lacrime, pregando di pompare aria di continuo, senza esitare, senza interrompere il ritmo.
“Belandi, domani sigarette a volontà, a chi sta alla pompa….lo giuro!”.
Indovinate un pò, Ferdinando si fece avanti impugnando la maniglia del compressore, senza mollare un secondo né sigaretta né sorriso fetente.
Povero Giobatta, tremava come una foglia, era praticamente paralizzato.
Presi l’altra maniglia io, rassicurandolo. Ma questo per lui fu un dettaglio.
La vestizione sembrava la preparazione di un condannato a morte ed i suoi occhi all’interno del casco parevano già quelli di un trapassato.
L’istruttore ripeteva: “La valvola, la senti con la tempia? Prova a schiacciarla…”.
Qualche sbuffo incerto dallo scarico, il meccanismo funzionava!
La scena che seguì era degna del film “I Pirati”. Giobatta sulla passerella che non si voleva buttare in acqua, il comandante che lo spingeva. Alla fine perse l’equilibrio e cadde in acqua a testa sotto.
Visto il peso la discesa fu rapida e l’urlo del comando incitò: “Pompate, pompate…”.
Con foga io e Ferdinando cominciammo a far girare la ruota in modo costante. L’acqua era torbida ed il povero Audello, agitandosi sul fondo, sollevava una sospensione che tramutò il mare in uno stagno fangoso.
Qualcuno rideva a crepapelle, qualcuno girava in tondo lo sguardo non riuscendo a capire cosa fosse giusto fare, altri, i più si sporsero preoccupati.
Per alcuni istanti, interminabili, non successe nulla. Solo il cigolio continuo della ruota garantiva che l’aria giungesse al fondo. Ma bolle di scarico in superficie non ne giungevano.
Poi, quasi dal fondo tentasse l’emersione un cetaceo di dimensioni esagerate, una strana forma cominciò a risalire velocemente.
Passarono alcuni secondi e a cinque sei metri dall’imbarcazione una forma dai contorni umani, una via di mezzo tra Buzz Lightyear di Toys e l’Omino della Michelen affiorò con violenza, gonfia quasi al punto di esplodere, galleggiando sulla superficie in modo grottesco.
Dal vetro del casco sembrava che non ci fosse nulla dentro ma le urla a tutta voce ci rassicuravano; Giobatta era vivo.
Afferrammo con le mani il tubo dell’aria tirando a noi quella specie di pallone gonfiato urlante.
Risate a non finire, compreso il comandante.
Facile spiegare cosa fosse accaduto: l’aria aveva gonfiato la tuta, che per lui alto un metro e sessanta era più che abbondante.
Non scaricando l’aria per l’agitazione questa si era distesa all’inverosimile e la testa non era più nel casco.
Quindi la tuta gonfia al pari un pallone aereostatico si era tesa come la pelle di un tamburo ed aveva iniziato a risalire con il povero sventurato dentro.
Tirato a bordo e sfilato il casco iniziò uno sproloquio in genovese antico che nessuno di noi riuscì a comprendere.
Paonazzo in volto volse lo sguardo verso il comandante il quale, con fare deciso, lo apostrofò: “Devi tornare giù, la galloccia non l’hai messa… e domani facciamo il tuffo dal trampolino di dieci metri”.
Povero Giobatta, una settimana d’inferno….
“Mi raccomando”, disse il comandante mentre lo aiutava a ricomporsi, “scarica di continuo la valvola…”.
Certe esperienze ti lasciano un segno, sicuramente

Lascia un commento